Il gruppo Facebook (ora Telegram, poi chissà) in cui uomini condividono foto intime delle proprie compagne, senza consenso, commentandole con frasi di esplicita violenza sessuale non è un incidente isolato.
È innanzitutto un reato (e questo non deve passare in secondo piano).
È inoltre il sintomo manifesto di una patologia della mascolinità che ci riguarda tutti. Per capirla, dobbiamo avere il coraggio di smontarla senza alibi e senza sconti.
La Donna come Oggetto: L'Atto di Violenza Primario
Il primo livello, il più evidente, è quello della violenza diretta. Condividere l'immagine intima di una persona senza il suo consenso è un atto di violenza. Non c'è altra definizione. È la negazione radicale della sua dignità, della sua volontà, della sua umanità.
In quel gesto, la donna cessa di essere una persona e diventa tre cose:
- Un Oggetto di Possesso: L'atto di esibirla al branco serve a marcare il territorio. "Questa è mia, e ne faccio ciò che voglio". La partner diventa un trofeo da esibire per affermare il proprio status.
- Un Oggetto di Scambio: Viene offerta in pasto al gruppo per cementare il legame tra maschi. La sua umiliazione diventa la moneta con cui si compra l'appartenenza e la complicità.
- Un Oggetto di Violenza: I commenti ("io so cosa le farei") completano l'opera, spersonalizzandola totalmente e riducendola a un corpo su cui proiettare fantasie di dominio e stupro.
Questo processo di reificazione è il fondamento di ogni forma di violenza di genere. Per poter fare del male a una donna, devi prima convincere te stesso che non sia un essere umano come te, per meglio sopportare il peso della violenza che le stai facendo.
Lo Specchio del Branco: La Ricerca di Omovalidazione
Ma perché noi uomini arriviamo a tanto, tradendo la fiducia della persona che dovremmo amare e proteggere? Io ritengo che la performatività maschile abbia per oggetto le donne, ma per destinatario gli altri uomini.
L'uomo in quel gruppo non sta certo comunicando con la sua partner. Sta cercando disperatamente l'approvazione, la validazione, il riconoscimento da parte dei suoi congeneri. Possiamo chiamarla omovalidazione: il bisogno di essere riconosciuto come "vero uomo" da altri "veri uomini". La sua virilità non è una qualità interiore, ma una recita che ha bisogno di un pubblico per esistere. E le donne, in questa recita, sono solo un oggetto di scena.
L'Omofobia come Polizia: La Purificazione del Pubblico
Questa dinamica genera un'altra conseguenza: se la validazione deve venire da altri "veri uomini", come ci si assicura che il pubblico sia quello giusto? Qui entra in gioco l'omofobia, che agisce come un vero e proprio meccanismo di polizia interna.
L'omofobia, in questo contesto, non è solo l'odio per le persone omosessuali. È il terrore di essere percepiti come "deboli", "femminucce", "sottomessi". L'insulto omofobo è l'arma che il branco usa per punire chiunque esca dal copione: chi mostra empatia, chi difende la propria compagna, chi si rifiuta di partecipare alla violenza.
Si crea così un circolo vizioso: per essere validato, ho bisogno di un pubblico di "duri". Per assicurarmi che il pubblico sia di "duri", uso l'omofobia per escludere chiunque sia "soft". L'omofobia diventa il filtro che purifica il pubblico, garantendo che la performance violenta riceva solo applausi.
L'Uomo Scisso: La Trappola del Doppio Vincolo e la Fragilità Patologica
Questa recita costante ha un costo psicologico altissimo per noi uomini. Ci costringe a vivere in un doppio vincolo insostenibile: la società si aspetta che in quanto uomini siamo protettivi e "salvifici" nei confronti della nostra famiglia, mentre il branco a cui affidiamo la nostra validazione ci chiede di essere cinici e dominanti.
Qualunque cosa facciamo, siamo in errore. Se siamo partner amorevoli, siamo "pappamolle" per il branco. Se siamo dominatori per il branco, abbiamo fallito come esseri umani nelle nostre relazioni intime. Questa tensione genera due identità incompatibili, l'Uomo-Relazione e l'Uomo-Branco.
L'atto violento nel gruppo Facebook è il tentativo patologico di risolvere questa scissione. È un rituale in cui l'Uomo-Branco uccide simbolicamente l'Uomo-Relazione, sacrificando la dignità della propria partner sull'altare del branco per dimostrare la sua lealtà. Questa non è forza. È la manifestazione di una fragilità patologica, di una mascolinità così insicura che ha bisogno di distruggere per sentirsi reale.
Dalla Responsabilità alla Colpa: Non Esistono Alibi
Comprendere queste dinamiche non significa giustificarle. Qui è fondamentale distinguere due concetti:
- La Responsabilità è di tutti gli uomini. Nessuno escluso. Abbiamo la responsabilità collettiva di smantellare questa cultura. Significa smettere di minimizzare ("sono solo scherzi"), rifiutare il victim blaming, e soprattutto rompere il silenzio complice. Quando sentiamo una battuta sessista, quando un amico parla in modo denigratorio della sua compagna, abbiamo la responsabilità di dire "No" a testa alta e a gran voce.
- La Colpa è individuale. Gli uomini che in quel gruppo hanno condiviso, commentato e riso hanno una colpa precisa. Hanno commesso un atto di violenza ed un reato. Sono loro che, con le loro azioni, costruiscono la base della piramide della violenza, normalizzando l'odio che poi sfocia in aggressioni fisiche e femminicidi. Questi atti vanno chiamati con il loro nome e, dove possibile, denunciati.
Ricucire lo Strappo: Un Percorso per Uomini Nuovi
Come se ne esce? La strada è lunga e richiede un lavoro che è sia individuale che collettivo.
- A livello individuale, ogni uomo deve avere il coraggio di guardare la propria scissione, di riconoscere la propria fragilità e di iniziare un percorso di alfabetizzazione emotiva.
- A livello collettivo, dobbiamo creare nuovi "branchi", nuovi spazi di confronto maschile basati sull'empatia e non sulla performance. Dobbiamo avere il coraggio di essere vulnerabili tra di noi.
- Nei rapporti tra i generi, il primo passo è ascoltare le donne. Credere loro. Diventare alleati attivi, non solo spettatori silenziosi.
Ricucire questo strappo non è un favore che facciamo alle donne. È un atto di liberazione che dobbiamo a noi stessi, per salvarci da una prigione di solitudine e violenza che abbiamo costruito con le nostre stesse mani.