Oggi ho partecipato al Pride della mia regione, qui a Terni. Un'onda colorata, pacifica, serenamente irriverente ha attraversato la città. C'erano musica, balli, risate. C'erano corpi. Corpi di ogni tipo, vestiti in ogni modo, che celebravano la propria esistenza alla luce del sole. Poi, come spesso accade, sono tornato a casa e ho aperto i social. Sotto agli articoli che parlavano della manifestazione, un'altra onda, ma di natura completamente diversa: commenti indignati, omofobi, carichi di disprezzo. Tra i tanti, mi hanno colpito quelli che si scagliavano contro la "pagliacciata", contro i corpi esposti, contro un lembo di pelle o un perizoma che si intravedeva da un carro.
Da uomo eterosessuale, posso dire di non sentire l'esigenza di esprimermi in modo così "sgargiante" e volutamente ingombrante. Ma ho imparato ad attraversare quella chiassosa celebrazione vivendone il senso, e l'ho sempre trovata profondamente rispettosa, anche nella sua irriverenza. Perché ho capito che quei corpi in piazza non sono lì per caso, né per semplice esibizionismo. Sono un atto politico.
Il corpo di una persona della comunità LGBTQIA+, in una società che ancora lo giudica, lo reprime, lo patologizza o semplicemente lo ignora, diventa un manifesto. Ogni passo di danza, ogni vestito colorato, ogni bacio scambiato alla luce del sole è una rivendicazione. Come grida il manifesto dell'Umbria Pride: "FUORI! è la necessità di esporsi come persone manifestando la libertà sui nostri corpi, sulle nostre relazioni, sulle nostre esistenze". Quei corpi, esposti e visibili, stanno chiedendo un consenso pubblico e politico alla loro esistenza. Stanno dicendo: "Noi esistiamo, amiamo, desideriamo in modo consensuale e sano, e abbiamo il diritto di farlo senza doverci nascondere". È un'affermazione di sé che nasce da una repressione subita.
E mentre riflettevo sull'indignazione che questi corpi consensuali e politici generano, non ho potuto fare a meno di pensare a un altro tipo di corpo, a un'altra forma di esposizione che, stranamente, non suscita lo stesso scandalo pubblico: i genitali maschili imposti nelle chat private delle donne.
Il contrasto è abissale. Da un lato, abbiamo un atto pubblico, politico, che cerca il consenso della società per esistere. Dall'altro, un atto privato, intimo, che il consenso lo scavalca, lo viola, lo annienta. Spesso, noi uomini etero, o alcuni di noi, mandiamo a donne di qualsiasi età foto dei nostri genitali. A volte sono persino immagini prese da gallerie online, spersonalizzate, astratte. In quel gesto non c'è ricerca di relazione, non c'è seduzione, non c'è scambio. C'è solo l'imposizione di sé, l'esposizione dei propri genitali come sinonimo di potere, come un'invasione di campo non richiesta e violenta.
Allora la domanda sorge spontanea: perché un corpo che balla su un carro in piazza, cercando visibilità e diritti, viene percepito come una "pagliacciata indecente", mentre un pene non richiesto che appare sullo schermo di un telefono viene spesso liquidato come una "goliardata" o un "comportamento da idiota", senza riconoscerne la profonda violenza?
La risposta, credo, risieda proprio nel concetto di potere e consenso. Il corpo del Pride, nella sua esuberanza, mette in discussione lo status quo. Sfida le norme, chiede un cambiamento, pretende uno spazio che gli è stato negato. È un corpo che, pur essendo pacifico, è percepito come una minaccia all'ordine costituito, a quel sistema patriarcale che definisce quali corpi e quali amori siano "normali" e quali no. La reazione indignata è la reazione di chi si sente minacciato nel proprio privilegio.
Il genitale imposto nella chat, al contrario, è la più bieca affermazione di quel privilegio. È un atto che non mette in discussione nulla, ma che anzi ribadisce una dinamica di potere: "Io, uomo, posso invadere il tuo spazio privato quando e come voglio. Il tuo consenso è irrilevante". Non è un atto di liberazione, ma di oppressione. Non cerca consenso, lo distrugge.
Come uomini, e in particolare come uomini etero, abbiamo la responsabilità di riconoscere questa differenza. Dobbiamo smettere di giudicare con fastidio i corpi che lottano per la loro emancipazione e iniziare a condannare con fermezza quelli che vengono usati come armi per invadere e violentare lo spazio altrui. La vera indecenza non sta in un corpo che danza per la libertà, ma in quello che si impone nel silenzio di una chat per affermare il proprio dominio.