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Ovunque, proteggi

Attenti al gorilla?!??!?

L'immagine dell'uomo come "protettore" della famiglia, del nucleo, del proprio spazio vitale, è una delle più radicate e, per certi versi, nobili narrazioni della mascolinità. Chi non vorrebbe, istintivamente, sentirsi capace di difendere le persone che ama da un pericolo? Il problema sorge quando questa aspirazione, di per sé legittima, si distorce, quando l'autoimmagine del protettore si nutre non tanto di una reale capacità di cura e prevenzione, quanto di una costante preparazione a una performance basata sull'aggressività. E, cosa ancora più insidiosa, quando, in assenza di minacce concrete e tangibili, arriviamo a distorcere gli scenari del quotidiano per dare una giustificazione a quei comportamenti aggressivi, facendoli passare per necessari.

Pensiamoci: quanto spesso la nostra idea di "proteggere" è legata a scenari di confronto fisico, di scontro, di affermazione di forza contro un "altro" ostile? I dibattiti virali su chi vincerebbe tra "100 uomini e un gorilla" o tra "un uomo e un orso" sono sintomi, per quanto estremi e talvolta ludici, di questa fascinazione per una protezione che si esprime attraverso la supremazia fisica e la capacità di neutralizzare una minaccia esterna. Ma la vita quotidiana, per fortuna, raramente ci presenta gorilla inferociti o pericoli da film d'azione. E allora, cosa ne facciamo di questa autoimmagine da guerriero pronto alla battaglia?

Tendiamo spesso a reinterpretare la realtà per renderla compatibile con il nostro bisogno di sentirci protettori attraverso l'aggressività. Un commento ambiguo diventa una provocazione da rintuzzare "per difendere l'onore", uno sguardo insistente si trasforma in una minaccia da neutralizzare "per mettere le cose in chiaro", una divergenza di opinioni con la partner può essere vissuta come un attacco alla stabilità familiare da reprimere "per il bene di tutti". In questi scenari, l'aggressività – verbale, intimidatoria, o anche solo una tensione muscolare pronta a scattare – non è una risposta a un pericolo reale, ma una performance autoindotta, un modo per sentirsi potenti, in controllo, e sì, "protettivi", anche quando non c'è nulla da cui proteggere se non, forse, la nostra stessa fragile autostima.

Il punto cruciale è che questa aggressività, socialmente problematica se espressa senza un valido motivo, trova una sua presentabilità proprio quando viene ammantata di intenti protettivi.

"L'ho fatto per difenderti"

"Devo proteggere la mia famiglia"

"Bisogna farsi rispettare in questo mondo di lupi"

Quante volte queste frasi mascherano, in realtà, un'incapacità di gestire la frustrazione, un bisogno di dominare la situazione o l'altro, una reazione sproporzionata a un'insicurezza personale? L'aggressività e il desiderio di dominio, di per sé inaccettabili in una relazione sana e paritaria, diventano quasi virtuosi se incorniciati come strumenti necessari per la tutela dei propri cari.

E per rendere questo quadro ancora più coerente con la nostra narrazione interna, spesso arriviamo a creare o ingigantire nemici immaginari. Il mondo esterno diventa un luogo costantemente ostile, pieno di pericoli imminenti da cui solo la nostra vigilanza aggressiva può salvare la famiglia. Un vicino di casa troppo rumoroso, un collega percepito come invidioso, l'ex partner della nostra compagna, o persino le sue amicizie considerate "influenze negative": ogni figura può essere trasformata nel "nemico" di turno. Questo "altro", reso ostile nella nostra mente, serve a giustificare non solo la nostra aggressività latente o manifesta, ma anche la sottomissione e il controllo delle persone che diciamo di amare, presentati come misure necessarie "per il loro bene", per proteggerle da queste minacce costruite ad arte. Limitare la libertà della partner, controllarne le frequentazioni, imporre le proprie decisioni "perché io so cosa è meglio per noi", diventano atti di "protezione responsabile" contro un mondo esterno dipinto come malevolo.

Questa distorsione è l'antitesi della vera cura e della vera protezione.

La protezione più efficace e costante, quella che garantisce letteralmente la salute e la sopravvivenza dei nostri familiari, non si manifesta in ipotetici scontri con intrusi o gorilla, ma nelle prassi quotidiane del lavoro di cura. Parliamo di quell'insieme di attenzioni, spesso invisibili e svalutate, che vanno dall'igiene personale e domestica – un fattore che ha storicamente rivoluzionato le aspettative di vita degli esseri umani, sconfiggendo malattie che un tempo decimavano le popolazioni – alla preparazione di pasti sani, dalla gestione della salute e delle visite mediche alla creazione di un ambiente emotivamente sicuro e accogliente. Queste sono le vere fondamenta del benessere.

Eppure, noi uomini spesso rifuggiamo questo tipo di impegno. Perché? Forse perché il lavoro di cura è meno ammantato di un'aura di eroismo spettacolare, è meno immediatamente gratificante per il nostro ego, non ci permette di inscenare la performance del maschio alfa che risolve la situazione con un gesto eclatante.

Pulire un bagno a fondo, ricordare di comprare le medicine, preparare una cena equilibrata o passare un pomeriggio ad ascoltare veramente i problemi di un figlio non finiscono nelle storie epiche.

Non ci fanno sentire "potenti" nel senso tradizionale del termine. Sono azioni che richiedono impegno, costanza, empatia, pazienza – qualità che la nostra cultura ha spesso etichettato come "femminili" o meno importanti rispetto alla forza fisica o all'assertività aggressiva.

Questa autoillusione del protettore aggressivo è pericolosa; dobbiamo invece rivalutare e riappropriarci del lavoro di cura come forma primaria e insostituibile di protezione. Significa chiederci onestamente: sto reagendo a una minaccia reale o sto cercando un pretesto per affermare il mio dominio, per sfogare la mia aggressività, per sentirmi potente? E, soprattutto: sto dedicando le mie energie a proteggere la mia famiglia dai pericoli reali e quotidiani, quelli che si combattono con la spugna e il disinfettante, con la spesa consapevole, con la presenza attenta e con il dialogo, oppure sto solo sognando di sconfiggere nemici immaginari per gonfiare il mio ego?

La vera forza protettiva non risiede nella capacità di intimidire o sconfiggere avversari (spesso inesistenti), ma nella capacità di costruire sicurezza attraverso la cura costante, il rispetto, l'ascolto e la promozione dell'autonomia e del benessere delle persone che amiamo. È tempo di deporre le armi immaginarie e iniziare a coltivare gli strumenti, ben più concreti, impegnativi e preziosi, di una protezione basata sull'amore autentico, sulla responsabilità quotidiana e sulla condivisione, non sulla paura e sulla sottomissione. Forse allora scopriremo che la vera impresa eroica è garantire un ambiente sano e sereno, giorno dopo giorno.


Questo articolo nasce da una riflessione sull'articolo di Gabrielle Blair Playing Superhero vs. Protecting Your Family

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