Birretta con gli amici, che scioglie le tensioni della settimana. Si parla di tutto, o quasi. Poi, magari per un attimo, un pensiero: vorrei dire qualcosa di più profondo su come mi sento. L'imbarazzo mi gela le parole in gola. Vischioso, fatto di timore del giudizio, paura di apparire "diverso", "pesante". E allora taccio, sorrido, e la conversazione scivola via su binari più sicuri, più collaudati, dove nessuno si espone davvero. Quel pensiero, però, resta.
Poi mi ritrovo in un altro contesto. Un gruppo misto, una discussione avviata da amiche o colleghe sul costo del patriarcato, sulle loro esperienze, sulle loro fatiche. E lì, paradossalmente, quell'imbarazzo paralizzante che sento con altri uomini sembra svanire. Anzi, sento quasi un'urgenza di intervenire, di condividere il mio punto di vista, di raccontare come anche io viva delle difficoltà, come anche per me il sistema sia a volte una gabbia. Mi sento quasi a mio agio, accolto, forse perché percepisco uno spazio di ascolto che tra soli uomini faccio una fatica tremenda a trovare o a creare. E parlo, racconto, mi apro.
Solo dopo sento un altro tipo di imbarazzo, più amaro perché tardivo: ma quello era davvero il momento e il luogo per il mio racconto? Quelle donne stavano condividendo il loro dolore, la loro rabbia, la loro esperienza di un sistema che le opprime con estrema forza e precisione. E io, cercando una connessione, ho finito per occupare quello spazio con le mie, di difficoltà. Ho spostato i riflettori. Ho trasformato un loro momento nel mio palcoscenico.
Pur di non sopportare il macigno del giudizio di altri uomini, pur di non sentirmi soppesato e rischiare di incrinarmi di fronte a chi potrebbe etichettarmi come "non abbastanza uomo", finisco per scaricare questo peso su chi vive una condizione strutturalmente diversa dalla mia, e che in quel frangente non ha bisogno delle mie sovrapposizioni. Mi ritrovo a spostare l'attenzione dalla loro esperienza alla mia, ma le alternative erano il silenzio o la gogna, quindi who cares?
La paura di affrontare i miei pari uomini con la mia interezza, con le mie fratture, mi porta a cercare un terreno più "morbido", meno giudicante. Proseguo indisturbato nel più comodo degli altrove, in cui mi sento in diritto di prendere parola, di inserirmi, di considerare la mia esperienza come immediatamente pertinente. Capisco troppo tardi che la narrazione in cui mi inserisco con disinvoltura non era stata pensata per me, non in quel modo.
Allora qual è la strada? Tenere per me le difficoltà che vivo a causa del patriarcato? Assolutamente no. Il punto non è cosa dico, ma dove e quando lo dico, e soprattutto a chi.
C'è un tempo, e soprattutto una platea, per poterci aprire in quanto uomini e parlare delle difficoltà che il patriarcato ci impone, delle aspettative che ci soffocano, delle emozioni che ci è stato insegnato a reprimere. Quella platea, quel primo spazio di elaborazione e confronto, dobbiamo essere noi stessi: altri uomini. Noi uomini dobbiamo prendere la parola, non lasciare nel non detto le cose importanti e profonde che sentiamo, quello che osserviamo, come ci sentiamo.
Ed è altrettanto importante che altri uomini ci ascoltino.
Che si creino contesti di fiducia reciproca dove superare l'imbarazzo iniziale, dove l’aprirsi non voglia dire mostrare una crepa nell'armatura, ma gettare un ponte verso una comprensione più profonda di noi e degli altri. Dobbiamo avere il coraggio di bussare sulla spalla dell'amico e chiedergli: "Ti senti mai così?". Dobbiamo avere la forza di restare in ascolto quando un altro uomo si apre, senza giudicarlo o sminuirlo, e senza ricorrere subito alla battuta o al cambio di argomento. Fidarci della sua richiesta di spazio per sé, di sé. Accoglierla e nutrirla.
Costa fatica? Sì. È imbarazzante all'inizio? Terribilmente. Rischiamo di essere fraintesi o presi in giro? È possibile. Ma è un rischio che dobbiamo correre. Costi quel che costi, in termini di vecchie abitudini e comodi silenzi.