La violenza di genere non è un fulmine a ciel sereno, ma la punta emergente di un iceberg culturale. Il modello della Piramide della Violenza di Genere ci aiuta a visualizzare questa realtà in modo potente: al vertice troviamo le forme più estreme e visibili – femminicidio, stupro, aggressioni fisiche gravi – ma queste poggiano su una base incredibilmente ampia, fatta di atteggiamenti, linguaggi e comportamenti spesso normalizzati, quasi invisibili nella loro quotidianità.
Parliamo di battute sessiste, commenti denigratori sull'aspetto o sulle capacità delle donne, stereotipi di genere veicolati dai media o nelle conversazioni al bar, la minimizzazione di segnali di controllo o prevaricazione in una relazione, fino alla colpevolizzazione della vittima ("se l'è cercata", "poteva vestirsi diversamente"). Questa base, fatta di sessismo diffuso e accettazione passiva di una cultura che svaluta il femminile, è il terreno fertile su cui la violenza prospera.
Ed è qui che entra in gioco un altro fattore cruciale, spesso dolorosamente sottovalutato: l'atteggiamento da "bystander", da spettatore passivo, che molti di noi adottano di fronte a queste dinamiche. Quante volte abbiamo assistito a una battuta sessista in un gruppo di amici e abbiamo preferito il silenzio, magari per imbarazzo, per non "rovinare l'atmosfera" o semplicemente per paura? E paura di cosa, esattamente? Qui tocchiamo un nostro nervo scoperto: la paura del discredito da parte degli altri uomini. È un timore potente, radicato nel bisogno di appartenenza al gruppo maschile e nella pressione a conformarsi a canoni di virilità ben precisi.
Intervenire per contestare un commento sessista, per difendere una donna sminuita, per mettere in discussione un atteggiamento prevaricatore di un amico, può esporci al rischio di essere etichettati come "femministi" (pensa te!), "bacchettoni", "poco uomini", o di essere isolati dal gruppo. Questa dinamica di "controllo sociale" tra pari è uno degli ostacoli più insidiosi alla fine della violenza contro le donne, perché crea una cappa di omertà e complicità che rafforza chi agisce il sessismo e scoraggia chi vorrebbe opporsi. Il silenzio del gruppo, di fronte a un atto che si colloca alla base della piramide della violenza, viene letto come un'approvazione, una legittimazione.
Eppure, è proprio intervenendo alla base di quella piramide che possiamo fare la differenza più grande. Non possiamo limitarci a condannare solo le manifestazioni più estreme della violenza, quando ormai il danno è irreparabile. Dobbiamo avere il coraggio di esporci, di prendere posizione ogni giorno, nelle piccole come nelle grandi occasioni, per avversare quelle dinamiche abusanti fin dal loro primo manifestarsi. Cosa significa, concretamente? Significa non ridere più a una battuta sessista e, se possibile, spiegare perché non è divertente. Significa contestare un amico che svaluta la sua partner o che fa commenti inappropriati su altre donne. Significa mettere in discussione gli stereotipi di genere nelle conversazioni quotidiane, a casa, al lavoro, con gli amici. Significa educare i nostri figli al rispetto e alla parità, e farlo prima di tutto con l'esempio. Significa non voltarsi dall'altra parte quando assistiamo a una scena di prevaricazione verbale o psicologica, anche se non ci coinvolge direttamente.
Certo, esporsi ha un costo. Può significare affrontare discussioni scomode, incomprensioni, forse anche l'allontanamento di qualcuno. Ma qual è il costo del silenzio? Il costo del silenzio è la perpetuazione di una cultura che ferisce, umilia e uccide. È la complicità, anche involontaria, con un sistema che vogliamo abbattere. Scegliere di non essere più spettatori passivi, ma agenti attivi di cambiamento, è un atto di responsabilità e di profonda coerenza con i valori di giustizia e rispetto che, a parole, molti di noi dicono di professare. La sfida è trasformare la paura del discredito in coraggio dell'esempio. Ogni uomo che rompe il silenzio, che interviene, che si espone, non solo contrasta un singolo episodio di sessismo, ma invia un messaggio potente agli altri uomini: "Non sono d'accordo, questo non è accettabile, si può essere uomini in un altro modo". È così che si inizia a incrinare la base della piramide, un mattone alla volta. È così che si costruisce una nuova cultura del rispetto, dove la violenza di genere non trovi più terreno fertile per attecchire. È un percorso lungo, faticoso, ma necessario. E comincia da ognuno di noi, dalla scelta quotidiana di non essere più semplici spettatori.