Spesso, quando si parla di patriarcato, l'attenzione si concentra giustamente sui danni e sulle ingiustizie subite dalle donne. È una prospettiva cruciale, che ha svelato dinamiche di oppressione sistemica e ha dato voce a chi per secoli non ne ha avuta. Questa analisi resta fondamentale e prioritaria. Meno frequentemente, forse, e con la dovuta cautela per non sminuire la sofferenza femminile, ci si sofferma su come questo stesso sistema, con le sue rigide aspettative di genere, imponga anche a noi uomini dei fardelli. Non si tratta di un "contro-canto" vittimistico, ma di una riflessione necessaria: aspettative irrealistiche e modelli comportamentali che limitano la nostra piena umanità. Queste "gabbie dorate" del maschile, spesso interiorizzate fin dalla più tenera età in modo quasi inconsapevole, non solo ci danneggiano individualmente, ma possono anche alimentare, direttamente o indirettamente, quella cultura della violenza che diciamo di voler contrastare.
Fin da piccoli, molti di noi vengono instradati sul sentiero del "vero uomo": un percorso lastricato di imperativi come la forza fisica e caratteriale a ogni costo, la soppressione delle emozioni considerate "deboli" (tristezza, paura, incertezza, bisogno di conforto), la competizione come unica modalità relazionale e il successo – spesso misurato in termini economici, professionali o di conquiste sessuali – come metro imprescindibile del proprio valore. Ci viene insegnato a "non piangere", a "essere duri", a "non chiedere mai", a "farti rispettare" (spesso inteso come imporsi). Ma quale prezzo paghiamo per aderire, o anche solo per tentare di aderire, a questo copione irraggiungibile?
La repressione emotiva ci allontana da noi stessi e dagli altri, rendendo difficile costruire intimità autentiche, comunicare i nostri bisogni profondi e chiedere aiuto nei momenti di difficoltà, vissuti come un fallimento della nostra virilità. La paura di non essere "abbastanza uomini", di essere giudicati o derisi, ci spinge a indossare maschere, a recitare una parte che spesso non ci corrisponde, generando ansia, stress cronico, e in alcuni casi, dipendenze o comportamenti aggressivi e autodistruttivi come meccanismo di compensazione o di sfogo. La costante competizione, inculcata in ogni ambito, dal gioco al lavoro, ci isola, trasformando potenziali alleati e amici in rivali da superare, minando la solidarietà maschile autentica.
Come si collega tutto questo alla violenza, in particolare a quella di genere, che è il focus del nostro impegno per andare "oltre"? In molti modi, purtroppo interconnessi. Un uomo educato a reprimere la propria vulnerabilità e a vedere il controllo, il possesso e il dominio come espressioni di virilità, può avere enormi difficoltà a gestire la frustrazione, il rifiuto o la perdita in modo sano e non violento. Può interpretare la richiesta di autonomia e parità da parte di una partner come una minaccia al proprio status, al proprio ruolo di "capofamiglia" o di "maschio dominante", reagendo con aggressività verbale, psicologica o fisica per ristabilire un presunto "ordine" gerarchico. L'incapacità di esprimere le proprie emozioni, di nominare il proprio disagio, può sfociare in esplosioni di rabbia incontrollata, dirette verso chi è percepito come più debole o come causa della propria frustrazione.
Inoltre, l'adesione acritica a modelli maschili che glorificano la sopraffazione, la conquista predatoria o la svalutazione del femminile – modelli veicolati da media, cultura popolare, e talvolta anche da figure di riferimento – contribuisce a creare un terreno fertile per la violenza. Se "essere uomo" significa non mostrare debolezza, dominare, e considerare le donne come oggetti da possedere o controllare, allora la violenza può diventare uno strumento, per quanto distorto e inaccettabile, per affermare la propria mascolinità, specialmente quando ci si sente inadeguati rispetto alle irraggiungibili aspettative del "vero uomo". È la logica del "non posso essere da meno", che può portare a giustificare o minimizzare comportamenti abusanti.
Riconoscere queste gabbie, queste aspettative tossiche, è il primo, fondamentale passo per liberarcene. "Andare oltre la violenza" significa anche, e forse soprattutto, andare oltre questi modelli maschili restrittivi e dannosi che ci imprigionano. Significa darci il permesso di essere vulnerabili, di ammettere le nostre paure e incertezze, di esprimere l'intera gamma delle nostre emozioni senza timore di essere giudicati "poco uomini". Significa imparare a costruire relazioni basate sull'empatia, sull'ascolto reciproco, sulla cura e sulla reciprocità, anziché sul potere e sul controllo. Significa ridefinire il successo e il valore personale al di là degli stereotipi economici, di status o di performance.
Questo percorso di consapevolezza e decostruzione non è un segno di debolezza, ma al contrario, di grande forza interiore e di coraggio intellettuale. È un cammino che ci permette di riscoprire e coltivare una mascolinità più autentica, più ricca, più sfaccettata e, soprattutto, più umana. Una mascolinità che non ha bisogno della violenza, né fisica né verbale o psicologica, per affermarsi, perché trova la sua forza nel rispetto di sé, nella connessione emotiva con gli altri e nell'impegno per la giustizia. Liberandoci dal peso di queste aspettative, non solo miglioriamo la qualità della nostra vita e delle nostre relazioni, ma contribuiamo attivamente a prosciugare il terreno culturale su cui prospera la violenza di genere, costruendo una società più equa, sicura e rispettosa per tutti.