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Che goccia sei?

Perfettamente funzionali, poco autentici

Spesso trattiamo le nostre emozioni come un fastidioso rumore di fondo da ignorare per concentrarci sulla riparazione. Parliamo della nostra situazione, ma non di come ci sentiamo dentro alla nostra situazione. Non diciamo: "Questa cosami fa stare male", "Ho paura di non essere all'altezza", "Sono sfinito e non so come andare avanti".

Lo stesso accade quando siamo noi ad ascoltare. Contiamo. Misuriamo i confini di ciò che abbiamo davanti finché non assume i contorni di un problema da risolvere. E a quel punto rilasciamo un nostro saggio consiglio, una soluzione che lo fa mettere nel cassetto dei problemi risolti. Missione compiuta. Possiamo sentirci oggetto della stima degli altri.

Questo è il risultato diretto di un addestramento che dura tutta la vita.

Ci viene insegnato che il nostro valore si misura sulla nostra capacità di fare, di risolvere, di essere la soluzione. Non ci viene insegnato quale è il posto della sopraffazione, della tristezza, della paura. Se non riusciamo a gestire le nostre emozioni, come possiamo pretendere di gestire il mondo esterno? Vista da qui, la vulnerabilità è l'antitesi della competenza.

Le relazioni maschili sono spesso inquinate da una sottile ma costante competizione. Mostrare una crepa, ammettere una fragilità diventa un "perdere punti", un mostrarci inadatti al livello di performance che ci autoimponiamo. È più sicuro mantenere la maschera dell'uomo che ha tutto sotto controllo. 

Molto semplicemente, spesso non abbiamo le parole. La nostra educazione emotiva è rudimentale. Sappiamo riconoscere la rabbia (l'unica emozione spesso legittimata), ma facciamo fatica a nominare e a gestire la delusione, l'ansia, la malinconia, il senso di inadeguatezza. È più facile ignorare queste sensazioni che provare a dar loro un nome.

Questo approccio pratico, ma emotivamente arido, ha un costo enorme.

Possiamo essere circondati da amici, ma sentirci completamente soli con il nostro mondo interiore. Nessuno sa davvero come stiamo, perché non abbiamo mai imparato a dirlo, né a chiederlo.

Il risultato è che un uomo può avere un amico da vent'anni e non sapere nulla delle sue vere esperienze affettive, delle sue paure, dei suoi desideri. Sa che è fidanzato, sa che si è lasciato, ma non sa come si è sentito in quelle situazioni.

Questa rinuncia preventiva è la forma più subdola e potente di auto-isolamento. Non è che proviamo a parlare e falliamo; è che rinunciamo a provare. Ci condanniamo da soli a relazioni superficiali per paura di affrontare l'incertezza di quelle profonde.

 Le nostre amicizie rimangono a un livello funzionale, senza mai raggiungere una vera intimità. Questo si riflette anche nelle relazioni sentimentali, dove spesso fatichiamo a costruire una connessione emotiva profonda, perché non siamo allenati a farlo nemmeno con i nostri amici più cari. 

Ci sveliamo, sì, ma solo fino a un certo punto. Condividiamo i fatti, non i sentimenti. Raccontiamo cosa ci è successo, non chi siamo diventati dopo che ci è successo. E così, finiamo per diventare intercambiabili. Le nostre storie si assomigliano tutte. Diventiamo l'ennesima goccia in un mare di mascolinità performante, dove tutti affrontano le stesse battaglie (il lavoro, le relazioni, le responsabilità) indossando la stessa armatura.

Come potrebbero i nostri amici riconoscerci nella nostra unicità, se siamo noi i primi a presentarci come l'ennesima, indistinguibile goccia nel mare?

La verità è che abbiamo paura. Paura di svestire l'uniforme. Paura che mostrare una crepa – una speranza irrazionale, una debolezza inaspettata, una passione non "convenzionale" – possa essere interpretato come un fallimento. Paura di rompere quel tacito accordo di superficialità che ci protegge, ma che al tempo stesso ci isola. E così, i nostri sogni più grandi, le nostre paure più profonde, le sfumature che ci rendono unici rimangono sommerse. I nostri amici vedono la superficie dell'oceano, a volte increspata da una difficoltà "tecnica", ma non conoscono le correnti profonde che ci definiscono. Vedono il ruolo che interpretiamo, non la persona che siamo.

Basta un piccolo rischio. Svelare un pezzetto di noi che di solito teniamo nascosto. "Sai, ultimamente sogno di..." oppure "Questa situazione mi sta mettendo molta ansia". Potremmo essere i primi a farlo nel nostro gruppo, e potrebbe cadere un silenzio imbarazzato. Ma potremmo anche scoprire di aver dato a un altro uomo il permesso di fare lo stesso, di svestire per un attimo la sua uniforme e di mostrarsi per quello che è: non un'altra goccia, ma una persona unica, con le sue speranze, le sue paure e il suo disperato bisogno, come tutti noi, di essere visto davvero.

Questo è il regno della comunicazione autentica, un territorio spesso inesplorato per noi uomini, ma che nasconde il segreto per relazioni più profonde e per un maggior benessere interiore.

L'obiettivo della comunicazione autentica non è modificare una situazione nel mondo reale. Non si ferma alle informazioni, ai dati, alla logica.

La comunicazione autentica è orientata all'interno. Il suo obiettivo è darci modo di esprimere il nostro stato interiore (un'emozione, un dubbio, una speranza) e vedere riconosciuta quella realtà interiore dall'altra persona. Il successo si misura dalla qualità della connessione che si crea: mi sono sentito visto? Ascoltato? Capito?

La comunicazione autentica non deve necessariamente produrre un risultato concreto. Il suo risultato è il legame stesso. È la sensazione di non essere soli nel proprio vissuto, di essere riconosciuti nella propria unicità. È ciò che trasforma un conoscente in un confidente.

Quando un uomo si sente veramente ascoltato, senza giudizio e con piena attenzione, si sente finalmente al sicuro. E solo quando si sente al sicuro, trova il coraggio di svelare il suo stato interiore, di mostrarsi per ciò che è veramente, oltre il ruolo che interpreta. Passare dalla sola comunicazione funzionale a quella autentica non significa smettere di risolvere problemi. Significa aggiungere alla nostra cassetta degli attrezzi lo strumento più potente di tutti: la capacità di creare una connessione umana reale. È uno strumento che non ripara le auto, ma può riparare la solitudine. E questo, a conti fatti, è un risultato molto più concreto di quanto pensiamo.

Battere la solitudine vuol dire sapere che qualcuno ci vede per ciò che siamo. Questa sicurezza non si basa sulla frequenza delle interazioni, ma sulla loro qualità. 

Proprio le nostre relazioni quotidiane, se mancano di profondità, rischiano di essere effimere in questo senso, per quanto piacevoli; ma ecco perché c'è poi questa coazione a ripeterle ossessivamente, ecco perché il bisogno di ritualità di queste relazioni. Per cercare di costruire l'illusione dell'autenticità attraverso la compulsività nella conformità.

Ma se ribaltassimo la prospettiva? Se il punto non fosse lamentarsi di essere una goccia nel mare, nel senso di un'individualità arida, effimera, ma avere la curiosità e il coraggio di chiederci: che goccia sei?

Se è vero che siamo tutti connessi a un universo più grande, a quale parte di questo universo assomigliamo di più? La nostra essenza, la nostra unicità, che sapore ha?

Sono una goccia di pioggia, che nutre e porta la vita, a volte delicata, a volte impetuosa come un temporale estivo?

Sono una goccia di fiume, che scorre, che scava la roccia con la pazienza e la tenacia, che segue un percorso ma sa adattarsi agli ostacoli?

Sono una goccia di mare, profonda, che custodisce segreti e mondi sommersi, a volte calma in superficie e turbolenta in profondità?

Oppure ancora sono una goccia di nebbia, che avvolge le cose in un velo di introspezione e mistero, che non si impone ma cambia la percezione di tutto ciò che tocca?

Siamo gocce dolci, come l'acqua di una sorgente di montagna, o siamo salati, e portiamo con noi il sapore di mari lontani e di esperienze intense? Portiamo con noi la sabbia di un deserto che abbiamo attraversato? Siamo freddi come la neve, e proveniamo dal più rigido degli inverni?

Ognuna di queste domande ci allontana da un oceano di anonimato e ci avvicina a noi stessi. Ci consente di guardarci dentro e riconoscere la nostra composizione unica, fatta di sogni, speranze, debolezze e storia personale.

Le relazioni in cui possiamo farci e fare queste domande, però, sono rare e preziose. Non accadono per caso. Sono il risultato di un lavoro emotivo e di un coraggio condiviso che ci fa superare la paura del giudizio e la rinuncia preventiva.

In una relazione autentica, non abbiamo più paura che la nostra "salinità" venga giudicata come aggressività, o la nostra "freddezza" come distacco. Sappiamo che l'altro non ci giudicherà, ma sarà curioso di capire l'origine della nostra natura. C'è accettazione, non valutazione.

Ed abbiamo anche smesso di evitare le conversazioni "difficili". Abbiamo consapevolmente deciso di correre il rischio dell'ambiguità, dell'incertezza, pur di mostrarci e di vedere l'altro. Non fuggiamo più dalla possibilità di una connessione vera, ma la coltiviamo, anche quando fa paura.


So che non è facile avviare certe conversazioni, ma proviamoci. CONDIVIDI l'articolo!
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